pièdimosca edizioni

intervista a Carlo Sperduti

autore di Le cose inutili

a cura di Costanza Raspa

 

 ¶ cosa racconta Le cose inutili?

Una domanda a cui è difficilissimo rispondere per la natura stessa del libro, ma a cui risponderò, tautologicamente, che Le cose inutili racconta esclusivamente di cose inutili, di molte cose inutili, illogiche, insensate e assurde compiute o subite da molti personaggi, alcune delle quali sono imposture: imposture, va da sé, inutili. Si tratta in sostanza di un libro puntigliosamente realista, la cui struttura è caotica e arbitraria almeno quanto ogni altra cosa.

In effetti, una delle fasi più difficili del lavoro con pièdimosca edizioni è stata l’ideazione di una sinossi che rendesse l’idea di quella che generalmente chiamiamo trama.

Farò qui un ulteriore tentativo di sintesi. Attraverso un montaggio spazio-temporale volutamente disordinato, che lascia al lettore non pochi buchi da riempire, le vicende in ballo sono: quella del ricchissimo tuttologo Vlado Merletti che, sconvolto dall’improvvisa decisione della consorte Irene Abbandando di divorziare, cambia radicalmente vita, facendo perdere le proprie tracce per un lustro e inviando da tutto il globo ad Amando e Gioio, compagni di bevute, le sue indagini su “oggetti decontestualizzati”; quella di Irene Abbandando, che brevetta le mutandem, mutande di coppia variamente declinabili, e con questa invenzione ottiene un successo internazionale e una ricchezza spropositata; la storia d’amore tra Marilena, figlia di Irene e Vlado, e il libraio Fosco Bruno Toddottidi, che prende una piega sensorialmente paranormale; la fortuna dello studente Antonio, che si imbatte nella signora Abbandando durante il suo primo giorno di volantinaggio alle dipendenze del rozzo Fargiulli; i destini incrociati del Baranoia, gestito dalla Signora Linda – maniaca delle pulizie, affetta da coprolalia autodenigrante e da sempre innamorata di Vlado – e popolato da ogni sorta di clienti serviti dalle conturbanti cameriere Marca e Davida; le aleatorie iniziative della Compagnia degli Atti Inutili.

Per tutto il romanzo, così come si salta da una vicenda all’altra e ci si sposta di continuo nel tempo, a livello formale, tra un capitolo e l’altro o all’interno di uno stesso capitolo, si salta tra toni, stili e generi disparati: si incontrano prime e terze persone narranti, tutti i possibili tempi verbali, flussi di coscienza, canzoni, indagini surreali, giochi di parole, una tragedia in due atti e un intermezzo, un racconto fantastico che potrebbe essere uscito dalla penna di un autore ottocentesco alquanto discutibile, alcune enumerazioni sospese tra Perec e Rabelais e altro ancora…

 

¶ Le cose inutili è stato pubblicato per la prima volta nel 2015. Come ti sei sentito rileggendoti anni dopo? cosa è cambiato in questa nuova edizione?

Posso affermare senza iperboli che il libro mi segue sin dalle prime mosse editoriali. Se, infatti, le mie prime pubblicazioni risalgono a una decina di anni fa, è nello stesso periodo che ho iniziato a pensare, e in parte redigere, le serie di capitoli che compongono il romanzo, corrispondenti alle vicende di cui ho detto.

Una prima versione completa risale al marzo del 2013, circa tre anni dopo l’inizio del lavoro ed esattamente due anni prima della pubblicazione con CaratteriMobili, casa editrice pugliese nel frattempo, ahimè, scomparsa. In quei due anni i rimaneggiamenti sono stati molti. Ho poi riletto il libro qualche mese fa, in vista della nuova uscita, e mi sono stupito nel trovarmi ancora divertito e partecipe di quella scrittura: stupito non solo per la distanza cronologica ma anche e soprattutto perché non sarei in grado di scrivere, ora, in quei modi, e nemmeno vorrei. Molti altri stimoli e influenze si sono accumulati dal 2015 a oggi, e molte altre strade ho imboccato: i miei modi di scrivere attuali sono lontani, dunque, da quelli di 5 anni fa. Eppure, Le cose inutili è ancora, indubbiamente, un mio libro in tutte le sue parti, e spero continuerà a seguirmi a lungo. Di conseguenza, gli interventi sulla nuova edizione, pur numerosi, non sono stati sostanziali.

Il primo accorgimento è stato di tipo cronologico: l’arco temporale in cui il romanzo è ambientato doveva, sin dalla prima edizione, dar modo di leggere in parte vicende passate, in parte in atto, in parte relative a un futuro prossimo, doveva cioè dare al lettore l’impressione di trovarsi cronologicamente nel mezzo. Quindi, se nel 2015 il romanzo copriva un periodo compreso tra il 2010 e il 2023, in questa nuova edizione il tempo si sposta di cinque anni in avanti: dal 2015 al 2028. Il caso, in questa come in molte occasioni, è interessante benché – o in quanto – asemantico: i cinque anni di distanza dalle due edizioni sono paralleli ai cinque anni in cui si svolge il nucleo dei fatti, cioè i cinque anni di assenza di Vlado Merletti dal Baranoia. Il primo capitolo del romanzo narra appunto, al passato remoto, di questo ritorno che accadrà fra cinque anni. Sarebbe bello dare alle stampe il romanzo ogni lustro, magari aggiungendo di volta in volta dei capitoli (il libro lo permette in quanto romanzo potenziale, potenzialmente infinito: i buchi di cui dicevo potrebbero essere riempiti, non necessariamente da me, inventando per esempio altre indagini di Vlado Merletti, alcune delle quali, peraltro, suggerite nel libro stesso).

A parte questo salto temporale, sono intervenuto su alcune inesattezze o approssimazioni lessicali presenti nell’edizione del 2015, oppure su scelte lessicali né inesatte né approssimative ma che il mio gusto attuale mal sopporta; inoltre, ho tagliato alcune lungaggini che mi sembrava smorzassero il ritmo della lettura o contenessero un’esuberanza letteraria le cui motivazioni non erano altrettanto letterarie ma piuttosto spettacolari; al contrario, ho mantenuto o arricchito altre lungaggini la cui presenza è invece del tutto funzionale anche quando iperletteraria (in un contesto di inutilità capillare, va da sé, la letterarietà vera o presunta deve innervare la pagina, e in alcuni punti di questa intervista sto adottando la stessa ottica). In generale, proprio in ragione di quanto ho detto sulla differenza di scrittura tra me e me in questi cinque anni, ho cercato di tenere a freno l’istinto della riscrittura, il cui rischio estremo era quello di scrivere un altro libro, non ripubblicando, di fatto, Le cose inutili. Capire dove non intervenire, insomma, è stata la forma più difficile di intervento.

 

¶ Quali sono le tue abitudini di scrittura e il dietro le quinte di questo libro? (segui una routine, scrivi di getto, in quali luoghi scrivi, aneddoti legati al libro?)

Il calderone di idee da cui è nato il libro dieci anni fa, che è lo stesso calderone delle mie prime pubblicazioni e addirittura di qualche materiale inedito (una specie di big bang personale da cui tutto si è originato, insomma, e dal cui centro le parti del mio universo si stanno allontanando, sempre più frammentandosi, in tutte le direzioni) rende estremamente difficile ricostruire le cose per come sono andate realmente. Ricordo che nello stesso periodo in cui è nata l’idea di questo romanzo prendevo appunti – anche – per un altro romanzo, che non ho mai portato a termine in quanto tale ma che ha impiegato otto anni e mezzo a diventare un racconto (fa parte di quel materiale inedito cui ho accennato) nato dalla fusione della prima idea con un racconto scritto anni dopo. In questo processo non facilmente inquadrabile o ricostruibile, in cui ogni cosa è materiale da laboratorio che può essere decontestualizzato e utilizzato in una maniera e in luogo differenti da quelli di origine, per tentare di rispondere alla domanda sulle mie abitudini di scrittura devo fare una distinzione fondamentale tra forma breve e forma lunga. Scrivo principalmente racconti e in quei casi, come ho detto altrove, non c’è una regola fissa ma c’è sempre una regola: ogni testo risponde a una precisa intenzione formale, prima che contenutistica, una gabbia in cui volutamente mi chiudo per circoscrivere il campo d’azione, che si concretizza in narrazioni che nel corso degli anni si sono progressivamente ridotte in estensione fino all’approdo ormai quasi sistematico alla microfinzione. La stesura di un mio racconto, se può richiedere uno o due mesi in qualche raro caso, quasi sempre si conclude a pochi giorni – certe volte a poche ore – dall’ideazione. Per quanto riguarda i romanzi, e Le cose inutili è il miglior esempio, la questione per me è uguale e diversa a un tempo: uguale per il fatto che concepisco la forma lunga come un convegno di racconti; diversa perché ognuno di questi racconti, pur avendo la sua regola interna, deve tener conto della presenza degli altri per poter instaurare un dialogo con essi e andare o non andare, a seconda delle intenzioni, da qualche parte (Le cose inutili non va da nessuna parte e lo fa, oserei dire, scientificamente). Questo secondo aspetto dilaziona indefinitamente la conclusione di un romanzo, dunque il problema non è la maggiore estensione in sé: la storia dei tre anni di lavoro su poco più di cento pagine e dei due anni successivi di revisioni (non consecutivi, per mia fortuna) ne è la conseguenza nel caso specifico di questo libro. E bisogna mettere in conto che le regole di partenza, data l’estensione del lavoro nel tempo, possono cambiare per ripensamenti o motivi imprevedibili, e dunque la forma e l’estensione della gabbia possono mutare scatenando reazioni a catena. L’operazione di incastro tra narrazioni talvolta molto diverse tra loro che però collaborano a un unico testo mi risulta, per dirla in una parola, faticosa: non solo per la difficoltà dell’operazione stessa, che c’è eccome, ma anche perché arriva sempre il momento della noia o della disaffezione, della voglia di iniziare un altro romanzo dal nulla (per giungere magari alla stessa situazione) o della stesura di un racconto breve che lì per lì mi diverte enormemente e mi porta a scriverne altri mentre il romanzo rimane incompiuto… ed è così che Le cose inutili è stato scritto e rivisto in almeno sette diverse case, in almeno quattro diverse città, in un numero irrintracciabile di mezzi di trasporto, probabilmente in un buon numero di bar e locali e in chissà quanti altri luoghi che non ricordo, a qualsiasi ora del giorno e della notte e da molti me differenti che allo stesso tempo scrivevano anche altro. Insomma, Le cose inutili somiglia molto, strutturalmente, alla sua stessa vicenda d’origine e di sviluppo. Mentre buona parte dei miei racconti risponde a un un’unità di tempo, luogo e personalità nell’ideazione e nella scrittura, Le cose inutili soffre di personalità multiple in atto e in potenza.

 

¶ Con quali personaggi ti senti legato per analogia e/o differenza?

Ho punti in comune con i lati peggiori di un buon numero di personaggi: ho comportamenti compulsivi e dico continuamente parolacce come la signora Linda; sono presuntuoso come Vlado Merletti e dunque, come lui, scrivo credendo che quel che scrivo sia di qualche interesse; bevo quanto Amando e Gioio messi insieme; faccio il libraio come Fosco Bruno Toddottidi (analogia acquisita, poiché lo faccio da soli tre anni); mi scaccolo come Fargiulli; sono inetto come lo studente Antonio.

Al contrario, non posseggo alcuni punti di forza. Un esempio su tutti: non ho mai avuto idee geniali che mi abbiano reso schifosamente ricco come la signora Abbandando.

 

¶ Ipotizziamo un percorso letterario collegato a Le cose inutili. Quali libri consigli al tuo lettore?

Bene, è il momento della lista (molto molto incompleta e in ordine casuale):

“Locus Solus” di Raymond Roussel, “Una pinta d’inchiostro irlandese” di Flann O’Brien, “La gelosia” di Alain Robbe-Grillet, “Moto perpetuo” di Augusto Monterroso, “Casi” di Daniil Charms, “Finzioni” di Jorge Luis Borges, “I fiori blu” di Raymond Queneau, “Specie di Spazi” di Georges Perec, “Glossa” di Juan José Saer, “Uccidendo nani a bastonate” di Alberto Laiseca, “La pantera e altri racconti” di Sergio Pitol, “Vita e opinione di Tristram Shandy, gentiluomo” di Laurence Sterne, “Gargantua e Pantagruele” di François Rabelais, “I due allegri indiani” di Juan Rodolfo Wilcock, “Il giro del giorno in ottanta mondi” di Julio Cortázar, “Racconti di Pietroburgo” di Nikolaj Gogol’, “L’invenzione di Morel” di Adolfo Bioy Casares, “Bouvard e Pecuchet” di Gustave Flaubert, “La boutique del mistero” di Dino Buzzati, “Hilarotragoedia” di Giorgio Manganelli, “Cancroregina” di Tommaso Landolfi, “Triste come lei” di Juan Carlos Onetti, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda, “Bestiario” di Juan José Arreola, “Autunno a Pechino” di Boris Vian, “Un dramma davvero parigino” di Alphonse Allais, “Le galline pensierose” di Luigi Malerba, “Le ortensie” di Felisberto Hernández, “Asparagi e immortalità dell’anima” di Achille Campanile…

 

¶ Diamo un assaggio del libro, quale parte scegli?

Il terzo autoconclusivo capitolo, la Breve storia delle mutandem.

L’invenzione delle mutandem aveva procurato alla signora Abbandando notorietà internazionale, fruttando somme di denaro non contenibili in queste pagine. I fatti erano accaduti all’epoca della separazione dal marito, quando un estro fino ad allora sonnecchiante si era destato di buon umore con la ferma intenzione di recuperare il tempo perduto. La signora Abbandando aveva così concepito la sua idea luminosa, e di lì all’apertura del primo punto vendita specializzato il passo era stato breve.

Nel volgere di un anno o poco più gli esercizi commerciali, in città, erano diventati tre, attirando l’attenzione della stampa di settore. Dodici mesi dopo, la regione poteva vantare una quindicina di negozi di mutandem. Ventiquattro mezzi mesi dopo se ne contava almeno uno in ogni regione d’Italia. La Francia, l’Inghilterra, la Germania e il Belgio furono i primi paesi esteri a dimostrare un forte interesse per il rivoluzionario indumento, nonostante il suo nome, tradotto, non avesse lo stesso fascino della versione originale. Negli Stati Uniti non ci si pose il problema: il nome rimase invariato poiché “suonava bene”. Inaspettatamente, il Giappone venne per ultimo.

Il fenomeno delle mutande di coppia aveva assunto così, nell’arco di soli tre anni, dimensioni prima europee e poi intercontinentali. L’offerta venne diversificata man mano e adattata alle più disparate esigenze dalla fertile inventiva di Irene Abbandando.

A dispetto di ciò che un’intuizione di questo tipo potrebbe evocare nelle fantasie della maggior parte dei senzienti, la signora Abbandando non aveva pensato, in prima battuta, ad applicazioni erotiche delle mutandem e ciò – fatto ancora più singolare – nonostante il suo pensiero eterosessuale le avesse eterosessualmente progettate.

Il primo modello di mutandem era stato concepito come espressione di un “amicale attaccamento laterale”, come la stessa Abbandando aveva testimoniato in una celebre intervista. Solamente in seguito si erano aggiunti altri modelli – il frontale e il posteriore – e alcune varianti di genere si erano affiancate al modello basico per uomo e donna.

Al momento dei primi accordi per l’esportazione in territorio francese, comunque, erano già in circolazione i nove modelli fondamentali di mutandem: laterale per uomo e donna; laterale per uomo e uomo; laterale per donna e donna; frontale per uomo e donna; frontale per uomo e uomo; frontale per donna e donna; posteriore per uomo e donna; posteriore per uomo e uomo; posteriore per donna e donna.

Inutile dire che i fenomeni di travestitismo non tardarono a manifestarsi: talvolta orientati alla mera provocazione o guidati dal gusto per l’esibizionismo – la variante costume da bagno fu oltremodo apprezzata in questo senso –; più spesso genuine affermazioni d’identità. Coppie di donne presero a indossare mutandem da uomo o per uomo e donna, così come coppie di uomini indossavano mutandem da donna o per uomo e donna; neppure infrequenti furono i casi di coppie eterosessuali che indossavano mutandem per soli uomini o per sole donne. In poche parole, tutte le combinazioni possibili incontrarono il favore di nutrite fette di acquirenti, suggerendo alla signora Abbandando i celeberrimi schemi illustrativi contenuti nelle sue pubblicità.

Le polemiche dei benpensanti, con relative messe in discussione della moralità di questo o quel fenomeno legato al successo delle mutandem, non riuscirono a intaccare la serenità della signora Abbandando, che a testa alta continuava il suo glorioso percorso nel mondo dell’abbigliamento e progettava di persona, instancabilmente, di stagione in stagione, nuove collezioni, divenendo simbolo vivente di intraprendenza e lotta al pregiudizio.

 

 

 

Si parla di:

  • LE COSE INUTILI

    Carlo Sperduti

    Carlo Sperduti è nato a Roma nel 1984 e vive a Perugia, dove fa il libraio. È autore di racconti, microfinzioni e romanzi. Con pièdimosca edizioni ha pubblicato la raccolta di racconti…
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