pièdimosca edizioni

intervista ad Angelo Calvisi

autore di Gli altri fanno volume

a cura di Costanza Raspa

 

¶ cosa racconta Gli altri fanno volume?

La vita di un uomo, Paolo, colta in sei momenti, in sei giorni fondamentali, che corrispondono ai sei capitoli del libro. Sono i momenti, i giorni fondamentali della vita di tutti noi, forse: quando perdiamo un amore o quando lo ritroviamo, quando comprendiamo un po’ di più o un po’ meglio che cosa ci facciamo al mondo, quando capiamo il senso del nostro rapporto con il padre, o se vogliamo essere melodrammatici (e anche un po’ pomposi) con il Padre. Al di là di questo, però, mi pare che l’aspetto più peculiare di Gli altri fanno volume sia la struttura, che procede per sbalzi temporali per così dire non tradizionali. Più che di semplice gioco tra trama e intreccio parlerei del tentativo di far saltare i normali rapporti di causa ed effetto, nel senso che nel libro si ha la sensazione che sia il futuro a giustificare il passato e non viceversa. Ecco quindi che dal Paolo quarantenne che apre il libro ci troviamo a fare i conti con un Paolo ventottenne e poi con un Paolo bambino e poi di nuovo con un Paolo adulto e così via.

 

 ¶ “I giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume”citi nel libro. Quali sono i tuoi cinque o sei giorni indimenticabili?

I miei sei giorni indimenticabili… Sono un po’ più di sei! Sono un miscuglio di cose importanti e cose sciocche. Per esempio mi ricordo la prima volta che ho preso tra le mani un fumetto, e i fumetti (quelli popolari, non quelli colti: Zagor, per dire, o il mio amatissimo Piccolo Ranger) sono una passione che mi accompagna ancora oggi. Avrò avuto tre o quattro anni e passeggiavo con mia nonna. Ero un bimbetto magrino, al limite del patito (bei tempi, capperi) e mia nonna mi aveva portato davanti alla vetrina di una pasticceria per ingolosirmi. Lo vuoi il cannolo? Lo vuoi il bignè? Lì accanto c’era un edicola. Voglio quel giornalino, ho risposto. Poi ti prendo anche il giornalino, ma il cannolo? Nada. Quel giornalino che aveva acceso la mia fantasia, uno Zagor naturalmente, era una questione di vita o di morte e quando siamo tornati a casa, sfogliandolo, mi si è aperto un mondo. Oppure mi ricordo che durante un torneo di calcio alle superiori le classi di una scuola che non era la mia potevano portare uno “straniero”, ovvero un giocatore proveniente da un altro istituto. Be’, io sono andato a giocare nella classe di un mio amico e ho dato la samba a tutti! Io, che sono uno scarpone, per un giorno sono stato un fenomeno! E a proposito di calcio, ho chiara in mente una delle prime volte che ho portato Matteo, mio figlio, che era molto piccolo, a vedere una partita del Genoa. Ricordo la sua emozione, il rito della vestizione con magliettina, sciarpa e tutto, e una volta dentro lo stadio la sua espressione di gioia assoluta e l’abbraccio dopo un gol, con la percezione nitida, reale, concreta e non soltanto romantica di aver sentito il cuore di mio figlio battere nel mio petto. E indimenticabile è stato proprio il giorno (anzi la notte e la mattina), della nascita di Matteo, che si è conclusa con un attacco febbrile che mi ha stroncato per tutta la settimana, e poi tutti i primi baci, e la sera che ho incontrato mia moglie a casa di un amico… Potrei descriverti perfettamente come era vestita. E potrei dirti che l’amica che l’aveva portata con sé, di fronte alle mie domande interessate, rispose: lascia perdere, è già impegnata! Poi di questa amica mi sono vendicato, visto che le ho fatto a mia volta conoscere il marito, un matto vero di cui si è perdutamente innamorata! Un giorno indimenticabile lo racconto anche nel libro, ha a che fare con mio padre, e quindi magari lascio ai lettori il gusto di scoprirlo da soli…

 

¶ Gli altri fanno volume è stato pubblicato per la prima volta nel 2012. Come ti sei sentito rileggendoti anni dopo? cosa è cambiato in questa nuova edizione?

Parecchio. Intanto c’è una generale riscrittura. Poi ci sono personaggi (uno in particolare) che da secondari diventano un po’ più centrali, venendo a rappresentare il trait d’union tra i vari momenti della storia (è stato un suggerimento di Claudia Lamma, scrittrice per Terrarossa edizioni e ottima amica). Infine c’è un intero capitolo scritto ex novo, che chiarisce alcuni aspetti famigliari del protagonista. Sì, confermo. Più ancora che di nuova edizione parlerei proprio di riscrittura.

 

¶ Genova è il luogo in cui è ambientata la narrazione. Che rapporto hai con la tua città? Come è cambiata negli anni?

Il poeta Giorgio Caproni una volta ha detto: io sono fatto di Genova. Vorrei averla pronunciata io, questa frase. Sono andato a vivere in Germania, nel 2015. Doveva essere una cosa definitiva, non avevamo il progetto di rientrare. Non riesco a descrivere la sofferenza che ho provato in quel periodo, ma ti basti sapere che dopo due anni siamo tornati, rinunciando a condizioni lavorative assai vantaggiose. Genova è una città bellissima, ma probabilmente non è la più bella città d’Italia, penso che in senso stretto la città più bella d’Italia sia Napoli, di cui sono innamorato. Però Genova ha una dimensione oserei dire esistenziale che è unica. Una città di eterne partenze, elegante e fascinosa come la Londra vittoriana e malinconica come Lisbona, declinante verso il mare, con un centro storico che, come dice la leggenda, è il più esteso e importante d’Europa, e al contempo protesa verso l’Appennino e le Alpi, e poi quella lingua, quella cadenza che nessuno riesce a imitare… Genova per me è un sentimento struggente, è un ritorno a lungo desiderato, e se un visitatore comprende questo, se entra in questa risonanza, poi fa fatica a starne lontano. In questi anni, poi, la città sta cercando di vestirsi del suo abito migliore e stiamo assistendo a una crescita di interesse da parte dei turisti. Mi fa piacere, naturalmente, perché rispetto alle mete tradizionali del nostro formidabile e disgraziato Paese Genova è sempre stata un po’ ai margini. E quindi ti lascio immaginare il mio autentico godimento quando vado a zonzo per la città e vedo le comitive di francesi o americani o cinesi a naso all’insù, meravigliati di tanta magnificenza. E poi a Genova c’è il Genoa, non dimenticarlo…

 

¶ Non di sole parole ti occupi, essendo tu un attore e sceneggiatore. Come influisce questo sulla tua scrittura? Quando scrivi è presente solo il Calvisi scrittore o immagini la storia anche come attore e sceneggiatore?

Sono due cose abbastanza slegate. Nel momento della stesura (ma anche dopo) non mi è mai capitato di pensare a un mio testo narrativo in un’ottica diversa da quella del libro, anche se spesso nella mente il primo nucleo del lavoro è un’intuizione collegata a qualche immagine. Ma poi il difficile è fare in modo che quell’immagine si trasformi, arrivi a conseguire un valore letterario. Voglio dire… Quando in alcune recensioni leggo frasi del tipo: questo racconto è già pronto per il cinema, be’, c’è da essere certi che non lo leggerò mai. La forza di un libro non è la storia, ma la scrittura. D’altra parte perché, quando vedi un film tratto da libro, finisci sempre col dire che hai preferito il secondo? Perché cinema e letteratura sono due cose distinte. Personalmente non sono interessato, nella narrativa ma anche nel cinema, alla semplice trama. Volevo fermarmi a tre righe ben scritte, dice Sperduti, uno scrittore che pièdimosca conosce bene. E quindi la lingua, la struttura, il gioco, la dimensione allegorica… Queste sono le cose che mi interessano, al di là della trama in senso stretto. Come fai a restituire in immagini la potenza, l’arguzia di un Mari o di un Pecoraro, cito gli scrittori che prediligo? La letteratura ha il suo specifico, ed è la parola, così come il cinema ha il proprio, ovvero l’immagine. Quando con l’amico Paolo Pisoni ci vediamo per provare a dare un fratellino a Lazzaro, che è il primo film che abbiamo fatto assieme, la faccenda è diversa. Lì si procede proprio per immagini. Sono le immagini che danno il via alle cose che inventiamo. Paolo dice: ho visto un uomo di mezza età, stanco, alla lavanderia a gettoni. Guardava l’oblò della lavatrice e sembrava disperato. Da lì iniziamo a farci domande che prevedono risposte molto visive. Dove abita? Com’è casa sua? Com’è vestito? Ha la barba? Cose del genere. Se poi dovessi dire, alcune suggestioni evocate per la fotocamera poi magari migrano nel racconto, ma nello sviluppo i “trattamenti” sono diversi. Inoltre scrivere storie per immagini è molto più divertente perché si fa in gruppo. Lavorare in gruppo rende il lavoro più semplice, perché le idee si moltiplicano e ciò rende il processo meno difficoltoso e stressante. La difficoltà nel fare un film è avere a che fare con lo specifico di qui parlavo prima. L’ossessione per la parola di uno scrittore equivale all’ossessione dell’immagine per un regista. Ancora diversa è la mia attività di attore, che mi impegna un pochino più frequentemente rispetto a quella di sceneggiatore. Parliamo sempre di un livello poco più che amatoriale, intendiamoci. Sono un dilettante nel senso etimologico del termine, però mi pare di poter dire che l’aspetto più interessante della pratica attoriale non sia tanto quello di offrire una ponderosa interpretazione del personaggio, quanto quello di essere uno strumento nelle mani del regista. Per me, se il regista sa quello che vuole e riesce a trasferirtelo, l’eventuale fatica diventa velocemente divertimento e piacere.

 

¶ Quali sono le tue abitudini di scrittura e il dietro le quinte di questo libro? (scrivi solo se ti senti ispirato, segui una routine, aneddoti legati al libro)

Io ho pubblicato tanto, sempre con editori indipendenti, ma ho scritto e scrivo poco. Non sento la necessità di scrivere ogni giorno. Negli ultimi due anni, per esempio, che pure hanno visto la pubblicazione di altri due libri di narrativa inediti e avendo in uscita un libro di poesie, non ho scritto praticamente niente, a parte un pugno di racconti brevi. Non credo all’ispirazione, credo alla voglia di metterti davanti allo schermo e cominciare. E quindi, più che di ispirazione, parlerei di riconoscimento. Ovvero, quando riconosci che la storia che ti è balenata in mente possa avere uno sviluppo, allora vale la pena di cominciare. Perché dopo che hai cominciato a scrivere cominciano anche i guai, nel senso che diventa un’attività molto esclusiva, almeno per me. Esclusiva e stressante, dove non c’è posto per niente altro. La mia pratica di scrittura mi fa venire in mente Pantani, che diceva di andare forte in salita per accorciare l’agonia. Ecco, io comincio, mi impegno, non è che accorcio tanto, perché per scrivere i miei libretti, che difficilmente superano le centocinquanta pagine, impiego un sacco di tempo. Di certo, però, è un’agonia, perché sono molto pignolo. La leggerezza della mia scrittura mi costa fatica. Nello specifico Gli altri fanno volume è nato da due circostanze assai diverse. La morte di mio padre e la contestuale lettura del 42° parallelo di Dos Passos. Da una parte uno shock emotivo, dall’altra uno shock intellettuale. Ho seguito il filo e il risultato è questo libro.

 

¶ Ipotizziamo un percorso culturale collegato a Gli altri fanno volume. Quali libri, canzoni, film consigli al tuo lettore?

Contraddicendo clamorosamente ciò di cui andavo cianciando, come film suggerisco Alcuni giorni della vita di Oblomov, di Nikita Michalkov, che ho preferito al libro di Goncarov da cui è tratto. Come canzone la banalità estrema: La canzone del sole di Battisti, ma come dice quel tale: è il banale, di solito, il difficile. E come libro sì, mi ripeto: Il 42° parallelo di John Dos Passos.

 

¶ Diamo un assaggio del libro, quale parte scegli?

Dopo il racconto, Thomas è restato in silenzio per qualche secondo e poi mi ha domandato cosa c’è oltre la morte, che lui, così mi ha detto, non riusciva a immaginarselo. Gli ho risposto con la frase di Confucio, o almeno credo che sia sua: la massima del bruco inconsapevole del suo destino di farfalla. È una roba un po’ melensa, e nemmeno tanto consolatoria, a ben vedere, perché se proprio ci toccasse in sorte di reincarnarci in qualcos’altro, l’aspetto interessante della faccenda sarebbe quello di avere una seconda vita dove potersi ricordare di questa, e tuttavia, mentre la pronunciavo, mi è apparso finalmente chiaro che il mio è un lavoro da privilegiati. Insomma: stare con le persone ed emozionarsi, trasmettere a qualcuno l’idea che non è obbligatorio avere paura, e che nella vita ci sono tante strade, e che non c’è niente, proprio niente di scritto ma è tutto da scrivere. È stato lì che ho capito di essere felice, e che dovevo solo rassegnarmi a questo.

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