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Gli altri fanno volume | recensione di Samuele Petrangeli

Gli altri fanno volume – Angelo Calvisi, pièdimosca edizioni, 2020
Un cinghialetto meno di 200 pagine

Ci sta una frase di Michelangelo piuttosto famosa, secondo cui il suo metodo di scultura consiste nel prendere un blocco di marmo, fissarlo finché la scultura non emerge e poi liberarla del marmo in eccesso. Che è un po’ quello che di norma si fa con la narrativa. Se si vuole raccontare, che so, una storia d’amore, ci si concentra sugli episodi significativi – l’incontro, il primo bacio, le litigate più dure, forse la fine della storia d’amore, forse il suo rafforzarsi. Insomma, si selezionano gli eventi più importanti e li si fa emergere in modo che, alla vista e alla lettura, e soprattutto alla memoria, assumano un particolare ordine e significato. Li si scrosta, quindi, di tutti quegli eventi, di tutti quei giorni in eccesso che pare la soffochino. Proprio come il marmo in eccesso con il prigioniero di pietra di Michelangelo.

Angelo Calvisi in “Gli altri fanno volume” si concentra proprio su questo marmo in eccesso. Il titolo stesso, ripreso da una frase di Flaiano posta in epigrafe (“I giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.”), è una dichiarazione d’intenti. Lo sguardo del racconto della vita di Paolo, infatti, si concentra su tutti quegli altri giorni, quegli altri momenti che una narrazione più tradizionale avrebbe scartato. Sono il racconto di una giornata a vedere il Genoa, o, per esempio, il giorno di una delle tante aperture del Mega Store di cd in cui all’epoca lavorava Paolo, o, magari, un giorno della sua infanzia. Sono giorni qualsiasi. Che, in alcuni casi, lambiscono uno dei cinque-sei eventi indimenticabili della vita di un uomo che diceva Flaiano, ma solo parzialmente, anzi, quasi con pudicizia, appena l’Evento con la e maiuscola accade, Calvisi glissa, gioca di ellissi. Le ellissi, tra l’altro, in “Gli altri fanno volume” hanno un ruolo fondamentale, sia a livello intradiegetico che extradiegetico. Forse perché tanto centrale è la memoria di noi stessi e degli altri.
C’è un momento, all’inizio, in cui Paolo racconta tre ricordi che ha con il padre, con cui ha sempre avuto un non-rapporto e che è morto da poco. Sono ricordi piccoli, di eventi insignificanti: un pomeriggio a guardare un film insieme al cinema, una pessima battuta di pesca, un viaggio in auto. Nulla di speciale. Ma è proprio questo il punto: in fondo, quello che ricordiamo non sono i giorni speciali. Cioè, per carità, sì, ma la differenza la fanno tutti gli altri. I giorni che fanno volume. Quelli in cui si cerca di tirare avanti. Monotoni, sempre uguali e per questo sempre diversi. Proprio perché sempre uguali, sono quelli i giorni in cui siamo noi stessi. Un uomo, in fondo, non è la grande azione della vita, ma tutte le piccole, insignificanti azioni che ha compiuto quando nessuno lo guardava. Neppure se stesso.
In tutta sincerità, la scelta di far scompaginare l’ordine cronologico dei cinque giorni raccontati da Calvisi, inizialmente, mi ha un po’ fatto storcere il naso: perché complicare inutilmente una storia volutamente così semplice? Una storia che fa della sua ordinarietà il suo punto di forza? Torniamo al discorso di poco sopra sulle storie. La disposizione cronologica permette un determinato sviluppo, di norma, da una situazione X a una situazione Y, che può essere un’evoluzione, peggioramento o quello che vi pare, e ogni evento intercorso fra inizio e fine è un evento atto – e raccontato – per rendere comprensibile questa trasformazione. Cioè, quello che intendo dire, è che l’evento conta, ma fino a un certo punto. Ciò che importa è l’effetto olistico del tutto. Scompaginando l’ordine cronologico – unito alla scelta di raccontare tutti gli altri giorni – Calvisi fa sì che ogni giorno conti di per sè. Che non siano soltanto momenti di un particolare disegno. L’effetto, anzi, è quello di quasi-racconti, indipendenti, ma comunque legati dalla presenza di Paolo e di alcuni elementi ricorrenti. Calvisi aumenta questa sensazione anche modulando la lingua in base al momento della vita di Paolo che sta raccontando. Si passa, per esempio, dal linguaggio da bambino – “veniva giù un’acqua come le mele” – a quello da trentenne disilluso e mezzo cinico alla Nick Hornby – ” Non mi ricordo cosa le ho consigliato, ma la sera siamo andati in pizzeria e una volta usciti siamo tornati in un posto davanti al mare dove ho provato a baciarla, solo che lei ha detto che avevo frainteso. Ero quasi sollevato e ho cominciato a parlare del più e del meno”.
Queste scelte formali però non sono esercizi di stile. Tutto questo serve, infatti, a farci percepire Paolo. Mettendo in secondo piano gli eventi fondamentali, ciò a cui assistiamo è il modo in cui Paolo li affronta. Come va avanti giorno dopo giorno. Sbagliando, magari, o cercando di fare la cosa giusta. Spesso fallendo. Spesso senza manco sapere qual è la cosa giusta. Semplicemente tirando avanti. Paolo, insomma, non è una persona speciale. E’ un uomo qualunque. Così come lo sguardo formale si rivolge a ciò che di solito è scartato, così accade ai personaggi: il romanzo è costellato di emarginati, di persone che sono ai bordi della narrazione – letteraria e della società. Persone di cui normalmente non sentiamo molto parlare e di cui, in fondo, spesso nemmeno ci importa. Proprio come i giorni qualunque. E che Calvisi – di nuovo, proprio come i giorni qualunque – mette al centro della sua narrazione. Senza mai idealizzarli o mitizzarli. Semplicemente raccontandoli. In “Gli altri fanno volume” è raccolta un’intera vita. C’è il grande amore, il senso di colpa, il rimorso, gli errori. Ma c’è soprattutto tutto l’altro. C’è il fatto che il grande amore a una certa finisce e ci sono tutti gli altri amori, c’è che la vita va avanti nonostante il senso di colpa, il rimorso e gli errori, che si impastano e vanno a comporre il tessuto della monotonia quotidiana. Perché, ecco, è in un momento come tutti gli altri, in un momento fra quei giorni che fanno volume che ti rendi conto che “stare con le persone ed emozionarsi, trasmettere a qualcuno l’idea che non è obbligatorio avere paura, e che nella vita ci sono tante strade, e che non c’è niente, proprio niente di scritto ma è tutto da scrivere. È stato lì che ho capito di essere felice, e che dovevo solo rassegnarmi a questo”.
Ma la vita, appunto, non è un libro. Va avanti e pure la felicità è un momento fra gli altri.

Samuele Petrangeli

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