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Intervista ad Angelo Calvisi | Una banda di cefali

Angelo Calvisi è un autore prolifico e atipico, difficile da classificare per mimetismo ma riconoscibile per controllo e capacità narrativa, in grado di piegare la sua scrittura sia alle situazioni più assurde e bestiali che alla tenerezza quasi religiosa che a volte la vita ci manifesta. In questo ultimo romanzo, Gli altri fanno volume, uscito nel bel mezzo del trambusto del 2020 per Pièdimosca edizioni, Calvisi narra l’esistenza del suo protagonista raccontandone solo sei giorni, sparigliando le carte del tempo, del destino, delle gerarchie del luogo comune. Insieme a Paolo passeggiamo per le strade di Genova, ricordiamo l’assurda violenza generazionale del G8, andiamo alle partite del Genoa e viviamo gli abbandoni dei padri, delle donne, della fortuna fin troppo cieca. E da lettori, la domanda è inevitabile: se dovessi descrivere la mia vita in soli sei giorni, quali sceglierei?

Ciao Angelo, benvenuto su Una banda di cefali. Il tuo ultimo romanzo, Gli altri fanno volume, prende il titolo da una frase di Ennio Flaiano: “I giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.” Qual è stata l’ispirazione di fondo, o la necessità, che ti ha portato a scrivere questo romanzo?

Grazie a voi dell’ospitalità. Credo che l’urgenza più significativa sia legata a una riflessione sul Padre. Ho cominciato a scrivere dopo la morte del mio, con cui, dall’età di dodici anni, avevo un non-rapporto. Ho cercato di analizzare l’irrimediabile senso di vuoto che ti lascia l’estinzione di una figura del genere, ma anche la mancanza di baricentro che è generata dal distacco, dall’indifferenza che lui nello specifico ha sempre manifestato nei miei confronti quando era vivo. È una sofferenza che definirei logica, scontata, mi ha lasciato in eredità un approccio al mondo e alla vita che definirei zoppicante, o forse barcollante, ma ha anche aspetti per così dire misteriosi. Voglio dire… Sei privato di qualcosa di molto importante, ma acquisisci qualcos’altro che lo è altrettanto. Un’acutezza di sguardo, la capacità di cogliere e comprendere un po’ meglio il dolore degli altri… Non saprei come descriverla. Si tratta di un aspetto che ho riscontrato molte volte nelle persone che hanno vissuto un rapporto con il padre simile a quello che ho vissuto io, un lato della personalità che mi pare tipico anche di Paolo, il protagonista della mia storia. Detto ciò, Gli altri fanno volume non è un libro autobiografico. O per meglio dire, lo è moltissimo, più di qualsiasi altro libro che abbia mai scritto, ma ho cercato di fare in modo che tutte le vicende acquisissero un significato per così dire universale e quindi, voglio sperare, letterario. D’altra parte, per rimanere al tema dell’ispirazione e della necessità sollecitato dalla tua domanda, credo che tutti scrivano anche sull’onda di uno shock, di un’emozione estetica o artistica, o perfino intellettuale e culturale. In questo senso sono fortemente debitore verso la lettura del 42° parallelo di Dos Passos. È un libro che non ha molto a che fare col mio, non gli somiglia, il mio somiglia più a Stoner di Williams, per certi versi, ma di certo la potenza che sentivo sprigionare dalle pagine di Dos Passos ha agito sul mio desiderio di scrivere.

In Gli altri fanno volume la linea temporale è completamente stravolta, a favore di un mosaico dove non è importante cosa sia accaduto prima o dopo, bensì il peso che il protagonista decide di conferire a un ricordo, un sogno, una circostanza. Questa scelta è frutto di un’esigenza più stilistica o narrativa?

Per me stile e narrazione vanno di pari passo, anzi: sono quasi la stessa cosa. A volte qualche critico fin troppo benevolo, dopo essersi chiesto perché, dopo un discreto mucchietto di libri, io continui a giacere nel limbo degli inchiavabili (o per essere meno turpi in una nicchia che mi conferisce una visibilità piccina picciò), si risponde che ciò dipende dal mio mimetismo, dal fatto cioè che cambi spesso stile e colore, come un camaleonte che, volendo spiazzare il suo lettore, non trovi poi nessuno che si affezioni a lui. Forse, da un punto di vista puramente commerciale, questo è vero. Ma a me pare che la scrittura e l’arte in generale sia soprattutto una questione di stile. Per raccontare la storia che hai in testa non ci può essere che uno stile e solo quello. E ti dirò di più: a volte è proprio nello stile che trovi il senso di quanto uno scrittore o un pittore o un cineasta o un musicista vuole esprimere. Nello specifico, la sfasatura temporale a cui alludi è certamente un fattore stilistico, ma rappresenta anche uno dei significati del libro, attraverso cui il sottoscritto intende mettere in rilievo la propria visione dell’esistenza, dove non esistono cause ed effetti e dove a volte è il futuro a giustificare il passato e non viceversa.

 

Gli altri fanno volume parla, a mio parere, del rapporto che ognuno di noi decide di stabilire col tempo e con gli eventi della propria vita, in maniera del tutto indipendente rispetto alla narrazione, appunto, lineare che siamo costretti a farne, in termini sia temporali che valoriali. Per intenderci, la narrazione comune che ci dice quando dobbiamo sentirci vecchi o felici o realizzati. Che ne pensi di questa lettura?

Credo che tu abbia colto nel segno, in fondo è proprio quello che dicevo prima. Il verbo chiave è quello che usi tu: “decidere”. Decidere di essere felici, per esempio. Anzi: raggiungere, abitare la consapevolezza che si può essere felici di una felicità totale, assoluta, in grado di illuminare tutta la tua vita, anche nell’istante immediatamente precedente la tua dipartita.

 

 Nel raccontare i giorni indimenticabili della sua vita, il protagonista Paolo include allo stesso modo realtà, sogno e allucinazione; il cinghiale incazzato, l’abbandono da parte del padre, un sogno ricorrente, tutto è parte della narrazione di una vita. Mi viene in mente Federico Fellini, che nelle interviste dicevadi essere scappato con un circo, da bambino, e lo raccontò così tante volte da far diventare reale la sua fantasia. Anche tu hai un rapporto felliniano con la memoria, con la narrazione?

Confesso, e ti giuro che non è piaggeria, che la tua citazione di Fellini mi ha fatto venire la pelle d’oca. Fellini è uno dei miei punti di riferimento. Con film come 8½ Fellini ha rivoluzionato il modo di raccontare, ma non al cinema, il modo di raccontare tout court. Citando Fellini a proposito di un mio testo tu mi fai un complimento di cui ti sarò grato per omnia saecula saeculorum, perché io vorrei essere come lui, avere quella capacità di mettere insieme, come dici tu, realtà e sogno, malinconia e felicità, stasi e azione, per realizzare una finzione che è più reale della realtà. La vita in fondo è come un’esperienza di veglia ipnotica (è un po’ quella “barcollanza” di cui parlavo prima) e il mio problema, la mia urgenza espressiva è dunque proprio quella di dare una forma a questa mia convinzione. È strano. Quando si parla di pittori ci si sofferma molto sul tipo di pennellata, sulla tecnica utilizzata, sulle scelte cromatiche. Per la letteratura questo non succede, ci fermiamo troppo spesso alla storia, a quello che viene detto, a tutto ciò che è esplicito, ma la tecnica che un autore sceglie è anch’essa significato, no? 

 

Nel romanzo ricoprono un’importanza particolare i luoghi: la tua città Genova, le Cinque Terre, la Sardegna. Memore delle ambientazioni claustrofobiche e anonime di Genesi 3.0, perché qui hai sentito invece l’esigenza di dare spazio ai luoghi? 

Secondo me anche in Genesi 3.0 i luoghi avevano un loro ruolo. Ho scritto quel libro mentre vivevo in Germania, che per l’appunto io interpretavo come claustrofobica, anonima, scolorita. L’ambientazione di Genesi 3.0 è conforme alla disperazione della storia raccontata, la quale a sua volta è conforme al mio stato d’animo di quel momento, quando credevo che non sarei tornato mai più a Genova. In Gli altri fanno volumeGenova e altri meravigliosi luoghi d’Italia sono centrali e centrali sono alcuni avvenimenti storici che sono avvenuti nella mia città perché in effetti nel libro mi interessava riflettere sul senso del rapporto tra la nostra storia di esseri umani e la Storia con la S maiuscola. Per me Gli altri fanno volume, a leggerlo fino in fondo e nonostante le apparenze, è un libro che parla anche e soprattutto di amore per la vita, di una malinconica dolcezza nei confronti di essa, e dunque non poteva che essere ambientato nella nostra bella e disgraziata Italia, e soprattutto a Genova, città che io amo profondamente, come se si trattasse di una persona. Per dirla con Caproni, io sono fatto di Genova e in fondo, in ogni mio libro, c’è qualcosa di lei.

 

Grazie per esserti prestato alla nostra curiosità di lettori. Prima di lasciarci, ti chiederei se hai già in cantiere il tuo prossimo romanzo.

 Sono io a rinnovare i miei ringraziamenti a Una banda di cefali. Quanto al cantiere, devo dire di no, non ho in mente niente. Sono uno scrittoretto atipico. Pubblico tanto e scrivo quasi niente. Ultimamente sto leggiucchiando qua e là, in particolare fumetti e testi di sociologia nordamericana, che da qualche tempo stanno scalando a grande velocità la mia classifica di gradimento. Chissà. Magari la prossima cosa a cui mi dedicherò sarà la sceneggiatura di un graphic novel ispirato al pensiero di Saskia Sassen.

Intervista a cura di Roberta Rega

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